A quale vizio capitale potremmo collegare il momento storico-culturale che stiamo vivendo? Senza dubbio all’accidia. Il non fare, il non fare né bene, né male. Il dire ” tanto sono tutti uguali”. “A me non riguarda”. Un peccato che tinge il nostro mondo di grigio e ci fa diventare tiepidi. Come la Melancholia di Dürer mostra ed insegna.
Inerzia, apatia, negligenza. Il vizio capitale dell’accidia è un vizio lento perché non segue la logica del «tutto e subito» degli altri vizi capitali. Accidia è la continua ricerca di un qualcosa, l’insoddisfazione costante per quello che si è e si ha che può trasformarsi in una nausea di vivere. Agisce nel silenzio ed è complice di tutti gli altri vizi; crea un vuoto che intrappola l’uomo, il quale poi troverà ogni giustificazione per non fare qualcosa. Nemmeno pregare.
Appunto, pregare. È in Oriente nel IV secolo, nell’ambito monastico, che l’accidia fa la sua prima comparsa: il «demone di mezzogiorno», l’ora in cui i monaci sono più fragili perché più stanchi. In seguito, in Occidente, la riflessione ha spostato l’orario andando verso la notte, rivestendo l’accidia di un abito da «demone notturno».
Per descrivere il comportamento dell’accidioso, l’arte ha attinto anche dalla parabola dei talenti: «Avverrà come di un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni (…). Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò, e volle regolare i conti con loro» (Mt, 25, 14-19).
La melancolia di Dürer
Pittore, incisore, matematico e trattatista tedesco, Albrecht Dürer è considerato il massimo esponente della pittura tedesca rinascimentale, e tutte queste sue peculiarità sembrano essere condensate in una tra le sue più emblematiche e complesse incisioni: Melancholia I, eseguita
nel 1514 e che formava un trittico insieme a San Gerolamo nello studio e Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo.
Una figura angelica, meglio definita come «genio alato», è raffigurata seduta, con la testa appoggiata sulla mano e con lo sguardo perso nei propri pensieri. È caoticamente circondata da una serie di strumenti da lavoro. Le fanno compagnia un cane scheletrico e un piccolo genietto, che mima lo stato di pensoso isolamento della figura in primo piano.
A una prima lettura appare tutto riconducibile a uno stato di accidia e malinconia: spesso l’arte, soprattutto dal XV secolo in avanti, ricorre all’iconografia della donna seduta o dell’uomo addormentato per meditare sul rischio dell’accidia. Ma Dürer aggiunge altri elementi: il cane, che proprio per il fatto di essere il “migliore amico” dell’uomo è anche quello più soggetto ai suo stati d’animo. Il pipistrello ( che mostra un cartiglio dove è inciso il titolo dell’opera) compare all’imbrunire e predilige i luoghi solitari, bui e in rovina.
La cometa nel cielo, la debole luce notturna che crea l’ombra della clessidra sul muro: tutti dettagli che sottolineano le caratteristiche di oscurità dell’opera che, secondo l’interpretazione più diffusa, rimanda alla teoria dei quattro umori elaborata nell’età classica: fra questi, l’umore malinconico – dal greco «bile nera» – corrisponde alla terra, all’autunno, alla sera e all’età matura.
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