Sono abituato a ricevere molte domande da parte dei miei alunni, ma questa sinceramente era del tutto inaspettata. Quanto vale una risposta? Il quesito nasce dall’osservazione di un ragazzo di scuola media a seguito della correzione di un compito scritto. La domanda non è del tutto illogica dal momento che su una verifica scritta, alla fine di ogni esercizio, si legge la dicitura “Punti…/10”. Ad ogni risposta viene assegnato un punteggio che, sommato agli altri, stabilirà il voto finale del compito.
Lo scenario è questo: Peppino e Pierino devono svolgere un esercizio di italiano composto da venti domande, e a ciascuna risposta corretta vengono assegnati 0,50 punti. Se gli alunni risponderanno esattamente a tutte le domande prenderanno 10, mentre se risponderanno solo a cinque quesiti prenderanno un umiliante 2,5 in italiano. Lo svolgimento di un esercizio equivale all’acquisizione dei punti utili per il voto finale, così come accade al supermercato dove vengono caricati i punti sulla tessera in base alla spesa effettuata.
Non importa se Peppino ha una famiglia benestante e con tanti mezzi, economici e culturali, a disposizione; così come non è importante ai fini della valutazione considerare che Pierino ha vissuto da poco un lutto, se è figlio di una famiglia povera e disagiata o magari se è arrivato tre mesi fa da un altro continente e non conosce ancora bene la lingua italiana.
Questo scenario, applicato soprattutto nella scuola secondaria, è la triste evoluzione del tentativo di rendere oggettiva la valutazione. Diversi sono gli scopi di questo perverso meccanismo: evitare contestazioni sia da parte dei genitori sia da parte dei ragazzi, fare in modo che tutti gli studenti siano valutati con il medesimo metro di giudizio e – non ultimo, più subdolo – mettere in competizione gli istituti, le classi dello stesso e gli insegnanti coinvolti.
La scuola viene vista come una costante gara a cui tutti gli studenti vengono iscritti, a loro insaputa, all’inizio del percorso scolastico. Mi chiedo come possa la valutazione, intesa in questo modo, avere una “finalità formativa ed educativa e concorrere al miglioramento degli apprendimenti e al successo formativo degli stessi”, promuovendo “la autovalutazione di ciascuno in relazione alle acquisizioni di conoscenze, abilità e competenze” (Art. 1 Decreto Legislativo 62/2017).
Cosa c’è di formativo nel dare un punteggio agli esercizi? Come può la valutazione migliorare un apprendimento se Pierino prende un oggettivo 2,5 al compito di italiano?
Quanto vale una riposta? Una risposta deve tener conto della realtà dei singoli studenti; il voto è un’emozione, una storia, riassume diversi aspetti della vita dei ragazzi. Non può mai essere solo oggettivo. La scuola deve mettersi in ascolto delle curiosità che i ragazzi portano in sé, delle motivazioni che li spingono a studiare, dei loro progressi, del vissuto fatto di esperienze, di vita, di gioie e di dolori.
Giorni fa ho incontrato alcuni ex alunni a cui ho chiesto se i professori si ponessero in atteggiamento di ascolto nei loro confronti. Tra le tante risposte mi ha colpito la considerazione di un ragazzo: “Se prendo 10 al tema, la prof di italiano vedi come mi ascolta…”. Triste e lapidaria la sua affermazione. La valutazione è una trappola in cui molti docenti finiscono, fino a diventarne un’ossessione. A farne le spese sono solamente i ragazzi quando la considerazione che alcuni professori rivolgono loro dipende dal voto che riportano in pagella.
Nei colloqui avuti in questi anni con i professori dei miei figli, ho constatato che nella maggior parte dei casi la conversazione inizia con la lettura dei voti nel registro. Spesso i professori si sono soffermati a quei freddi numeri precedentemente letti sul registro, perché ignorano la personalità, i punti di forza, le fragilità didattiche dei propri alunni.
Gli insegnanti dovrebbero saper tessere una relazione come accadeva un tempo tra il maestro e il discepolo, ed essere capaci di indirizzarli verso la reale vocazione professionale e umana; i ragazzi hanno bisogno di qualcuno capace di ascoltarli, non di persone che assegnano un punteggio alle loro risposte. Si deve passare dalla “scuola della prestazione” alla scuola del sapere, vissuta come esperienza di crescita, di gioia, di formazione umana e culturale. Un sapere dove gli studenti possano essere parte attiva della ricerca e della condivisione, della scoperta e della curiosità. Una scuola dove il “noi” prevalga sul voto.
In questi anni continuo a raccogliere tante domande e risposte da parte dei miei piccoli studenti. Alcune hanno fatto più bene a me che a loro, stimolando la mia riflessione personale. Non potrei quantificarle con un voto oggettivo. Sono consapevole che se da un lato abbiano rappresentato un dono immenso per me, dall’altro sono indubbiamente il risultato di un’attenzione particolare alle parole, agli sguardi e all’incanto che i miei alunni portano dentro di sé.
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