Passiamo ora alle due figure presenti sulla parte destra, dipinte quasi sul margine della tela, come a dare l’idea che siano appena entrate in scena…
Sono ancora gli abiti ad attirare innanzitutto la nostra attenzione: vesti all’antica, con tunica e mantello; e i piedi, seppur avvolti nell’ombra, privi di calzari. Come i filosofi, o i profeti. O come gli apostoli.
I due uomini sono quasi sovrapposti, e solo il lieve chinarsi in avanti del primo, ci permette di vedere il volto del secondo: un volto virile, e tuttavia con tratti ancora giovanili, l’ovale incorniciato da una corta barba, il capo circondato da una sottile linea d’oro: un’aureola, evidentemente.
Non ci sono dubbi: è lui, Gesù, il Cristo, il Messia. I suoi occhi, nerissimi, sono puntati su un uomo davanti a lui. Lo stesso che egli indica con il braccio steso, la mano aperta. Lo stesso che egli chiama con le labbra socchiuse: «Seguimi!»
Andando via di là,Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: “Seguimi”. Ed egli si alzò e lo seguì».
Mt 9,9
Quest’uomo a cui Gesù si rivolge, lo sappiamo, è Matteo, ed è proprio il personaggio al centro di quel gruppo disposto attorno al tavolo. Il pubblicano è stupito, esterrefatto, perfino: le sopracciglia inarcate, sgrana gli occhi come di fronte a un fatto clamoroso e inatteso. Che è esattamente quello che gli sta capitando… La mano sinistra si alza al petto, ed è proprio quel dito indice puntato sul cuore a iniziare un muto, intenso dialogo con il Salvatore: «Ma chi? Io?», sembra dire quel gesto, eloquente come pochi altri nella storia della pittura di tutti i tempi. «Proprio io, Gesù? Davvero stai chiamando me?».
Due mani, un’unica chiamata
È il momento di fermarsi un attimo, e di riconsiderare l’opera nel suo insieme, riabbracciandola per intero con lo sguardo. E finalmente intuiamo, forse addirittura cominciamo a capire, la grandezza, l’originalità, la genialità di questo dipinto. Che non ci mostra, genericamente, l’episodio della chiamata di Matteo, né ci illustra, semplicemente, il brano evangelico che lo racconta, ma ci fa entrare, ci fa rivivere il momento stesso in cui Gesù chiama un uomo, un peccatore, e lo pone di fronte alla decisione più importante della sua vita, di cui ne va della sua vita stessa: «Seguimi!». Nessuno, prima di Caravaggio, aveva mai tentato di realizzare qualcosa di simile…
Noi sappiamo cosa il pubblicano deciderà di fare: ce lo dicono i Vangeli. Ma
in realtà Caravaggio non ce lo dice. Perché egli focalizza tutta la sua, e la nostra, attenzione sull’istante drammatico della scelta. Matteo è sorpreso, incredulo, ma ha ben capito che quella chiamata è proprio per lui. Quegli occhi guardano lui. Quella mano tesa indica lui. E sa anche che il Cristo non farà un passo oltre: non verrà a prenderlo, non lo costringerà a seguirlo tirandolo per la sua elegante giubba di velluto… Levi figlio di Alfeo è libero di scegliere, come ogni uomo, ogni figlio di Dio su questa terra. Scegliere di continuare a occuparsi dei suoi soldi, dei suoi affari, dei suoi interessi, o, al contrario, di piantare lì tutto, subito, ora, e andare dietro a Gesù.
No, non è irriverente Caravaggio, quando sembra voler confinare la figura di Gesù in un angolo di questo suo dipinto. Cristo non si trova al centro della scena perché al centro, ora, con tutti i suoi dubbi, i suoi travagli, le sue speranze, c’è l’uomo che è stato chiamato, e che deve dare una risposta.
Tutto questo è ulteriormente sottolineato, e perfino esaltato, da Caravaggio
attraverso l’uso di un elemento estremamente efficace nella sua valenza simbolica: la luce.
Se fossimo in un contesto teatrale, una suggestione a cui già si accennava all’inizio, a noi spettatori potrebbe sembrare che il regista abbia voluto puntare sul protagonista della scena un faretto, un “occhio di bue”, tanto questa luce caravaggesca è tagliente e precisa. E quasi ci aspettiamo che da un momento all’altro questa luce si spenga, o che venga accesa in un altro punto del palco.
Del resto, come la chiamata da parte di Gesù occupa un momento ben preciso nella vita di Matteo, così la luce che lo illumina dura lo spazio di quell’istante. Sarà lui, come per ogni uomo, a interiorizzare e fare propria quell’illuminazione divina, vista per un attimo, che dura per l’eternità.
LUCA FRIGERIO, scrittore, giornalista e critico d’arte, è redattore dei media della Diocesi di Milano, per i quali cura la sezione culturale. Con Àncora ha pubblicato i libri: Caravaggio. La luce e le tenebre (2010); Cene Ultime. Dai mosaici di Ravenna al Cenacolo di Leonardo (2011); Bestiario Medievale. Animali simbolici nell’arte cristiana (2014); Bosch. Uomini, Angeli, Demoni (2017).
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