Nell’analisi degli arredi scolastici abbiamo finora esaminato oggetti visibili e concreti come lavagne, libri, computer, armadi ecc. Tutti oggetti che aiutano il docente nel trasmettere agli studenti contenuti delle discipline.
Eppure non abbiamo ancora parlato di uno strumento invisibile, direi il principale, che ogni insegnante utilizza quotidianamente durante le sue lezioni: la parola.
La scuola è un mondo fatto di parole a partire dalla Costituzione che le dedica gli articoli 33 e 34. Ogni anno vengono elaborati documenti e circolari tutte in quantità indefinibili: tonnellate di carta e miliardi di parole per definire i ruoli e le funzioni nella scuola. Ma è in classe, la particella più piccola della scuola, la più operativa dove gli studenti ascoltano quanto gli insegnanti hanno loro da offrire.
Parlare bene per educare
Nel suo impegno quotidiano un docente deve curare il proprio linguaggio, deve saper parlare bene per poter educare gli allievi nella crescita umana e culturale. È necessaria la conoscenza e il possesso delle parole, saperle sceglierle e offrirle con attenzione e pertinenza; l’insegnante dovrebbe avere quasi una devozione per le parole. Ce lo ricorda Socrate che «negli ultimi istanti della sua vita, raccomanda a Critone: “Tu sai bene che il parlare scorretto non solo è cosa per sé sconveniente, ma fa male anche alle anime”. E tuttavia il parlare scorretto, la progressiva perdita di aderenza delle parole ai concetti e alle cose, è un fenomeno sempre più diffuso, in forme ora nascoste e sottili, ora palesi e drammaticamente visibili” (G.Carofiglio, La manomissione delle parole, Rizzoli, 2010).
Il linguaggio e la forma
Non mi riferisco soltanto al rispetto della lingua italiana e delle sue regole grammaticali che ogni insegnante dovrebbe conoscere a menadito, ma anche alla dizione e all’uso improprio dei dialetti. A Roma, passeggiando nei corridoi di una scuola, si sentono spesso insegnanti parlare in dialetto durante le proprie lezioni; un uso limitato a qualche espressione può risultare anche simpatico ma di certo non può essere la regola del parlare quotidiano di un docente. Tanti anni fa ho conosciuto una simpaticissima maestra, molto volenterosa, che non riusciva a nascondere il suo dialetto calabrese: ricordo il suo tentativo tragicomico di insegnare ai bambini di seconda elementare la differenza tra una “e” aperta e una chiusa. Questo è un attentato vero e proprio alla lingua italiana da parte degli insegnanti che non riescono a parlare con una corretta dizione, non distinguendo il linguaggio più formale da quello che si usa al bar del paese!
La violenza delle parole
Oltre a parlar bene un insegnante deve saper scegliere il giusto linguaggio da adottare con gli studenti, a seconda dell’età. Parole che possano trasmettere ammirazione, incoraggiamento, speranza, mediante gentilezza, dolcezza, simpatia, affetto; un complimento o un incoraggiamento possono avere un effetto straordinario su un bambino o un ragazzo distratto, scoraggiato o che ha sbagliato un compito.
Qualche tempo fa con profonda tristezza e irritazione sentii una maestra della scuola dell’infanzia rivolgersi ai propri piccoli alunni definendoli “incivili e selvaggi”. Come è possibile parlare così a dei bambini? Queste persone andrebbero prese e allontanate perché se è tanto grave la violenza fisica altrettanto lo è quella verbale che lascia dei segni invisibili ma indelebili negli studenti. Purtroppo di espressioni tristi e dolorose ne ho ascoltate molte e ogni volta sono per me una ferita. Anche un rimprovero fatto con le giuste parole e con contenuti non offensivi può produrre dei risultati positivi.
La parola è uno strumento prezioso, per un insegnante è lo strumento di lavoro principale. Con la lingua possiamo fare del bene, così come distruggere l’autostima degli studenti che ci troviamo davanti; educhiamo noi stessi e i nostri figli, i nostri alunni, al parlare bene, ad usare un linguaggio ricco e pertinente per apprezzare la poesia e la letteratura. L’alternativa, in caso contrario, è perdersi nel vuoto delle emoticon.
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