Quante volte associamo al mondo della scuola la parola “compiti”, croce e delizia di studenti e insegnanti, tema da sempre molto dibattuto.
Li ricordiamo fin dai tempi delle elementari quando, chinati sui libri nei lunghi pomeriggi invernali, scrivevamo pagine di cornicette e di lettere in corsivo; poi, una volta acquisite le abilità di lettura e di scrittura, i compiti sono diventati sempre più impegnativi. Inizialmente li abbiamo affrontati pensando che fossero un allenamento per imparare, come fa un atleta quando deve prepararsi per la gara, poi col tempo abbiamo capito che diventavano anche oggetto di verifica e valutazione.
I compiti a casa non piacciono alle famiglie e agli studenti che preferirebbero al loro posto spensierati pomeriggi all’aria aperta. Gli insegnanti invece hanno una loro personale interpretazione sull’argomento: c’è chi li assegna per far sì che i propri alunni possano esercitarsi, chi addirittura li usa come punizione, chi invece li ritiene un dovere professionale da assolvere.
Quante volte ci vengono riportate critiche sulla quantità dei compiti assegnati. In molti sono dell’idea che andrebbero aboliti definitivamente. Effettivamente i nostri studenti trascorrono molte ore della settimana a scuola eppure, tornati a casa, il loro lavoro continua; molti ragazzi dedicano quotidianamente anche dieci ore alla scuola, orario ben al di sopra di quello che svolge un qualsiasi operaio. Gli studenti hanno indubbiamente un bel carico di lavoro verso il quale – noi adulti – dobbiamo sempre avere il massimo rispetto; studiare per formarsi come persone e come professionisti è un percorso molto impegnativo, a qualsiasi età.
I compiti costituiscono un peso non solo per gli studenti ma anche per le famiglie, soprattutto quando i figli sono ancora bambini. Si impiegano molte ore per svolgere i compiti a casa, condizionando i ritmi e le abitudini familiari; quando i miei figli erano piccoli, eravamo spesso costretti a sacrificare dei pomeriggi all’aria aperta per dare loro il tempo necessario per studiare.
Il tempo dedicato ai compiti, se sfruttato positivamente, può essere anche un tempo costruttivo da dedicare ai figli e magari per… rinfrescare qualche nozione! Io, ad esempio, sono diventato bravo con le tabelline quando le ho ripassate, a distanza di molti anni, con i miei figli. Quante volte i genitori mi dicono: “Maestro, ho ripassato anch’io la storia di Abramo che non ricordavo”, per non dire che spesso non la conoscevano proprio!
In questo periodo di “didattica a distanza” il dibattito sui compiti non si è esaurito, tutt’altro. Le famiglie stanno toccando con mano, ora come non mai, la vita di uno studente. Alcuni insegnanti hanno perso il controllo della situazione e assegnano valanghe di compiti, non rendendosi conto dell’effettivo carico che ricade sui ragazzi.
La via più saggia è sempre quella di mezzo; i compiti andrebbero assegnati nella giusta misura e per far questo è necessario che tutti i docenti consultino il registro di classe per avere una visione globale della quantità dei compiti assegnati dai colleghi. È un gesto di delicatezza ma anche di responsabilità. Così dovrebbero lavorare i docenti di una classe, confrontandosi anche su quanto i bambini o i ragazzi hanno da studiare a casa.
E come la mettiamo con i compiti di religione? È giusto o meno assegnarli? Personalmente di tanto in tanto assegno qualche lavoro da svolgere a casa, stando sempre attento alla quantità. I miei alunni sono molto diligenti in questo senso; sono convinto che quando gli studenti scoprono il bello di ogni materia ci metteranno anche piacere nell’approfondire a casa gli argomenti.
In questi giorni di didattica a distanza la mia casella di posta elettronica si riempie di e-mail con i compiti che i bambini stanno svolgendo. Spesso sono accompagnati anche da parole molto dolci che allentano – almeno per qualche istante – la distanza e la nostalgia di questo inedito tempo scolastico. Rispondo sempre con qualche parola di ringraziamento, perché – non dimentichiamolo – un compito eseguito non è solo un segno di responsabilità verso il proprio dovere, ma anche un gesto di attenzione nei confronti dell’insegnante.
Lo studente mette il proprio operato nelle mani del suo insegnante, colui che lo istruisce, lo forma e lo aiuta a crescere, che non deve essere mai giudice ma guida. È così che il compito assegnato – non importa se svolto bene o male – concluderà il suo cerchio che parte dalla voce dell’insegnante, passa per le mani laboriose di uno studente per ritornare poi al docente.
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