Lunedì mattina inizio le mie lezioni nelle classi quinte e lì, tra i miei alunni, si nasconde sempre qualche tifoso in erba, pronto a commentare le partite di calcio del fine settimana. Laziali, romanisti, juventini, qualche interista, questa è la rappresentanza tipo in aula.
Il vivace dibattito verte all’indomani di Lazio-Juventus, pareggiata dalla Lazio all’ultimo respiro con un gol di Caicedo che ha fatto impazzire i tifosi laziali come me, gettando inevitabilmente nello sconforto coloro che invece avevano assaporato la vittoria.
I miei alunni sostenevano la tesi che Caicedo fosse stato molto fortunato. Mi sono permesso di obiettare – non per campanilismo – ma perché mi piace osservare i fatti della vita e trarne sempre un insegnamento, in questo caso al di là dei colori e della fede sportiva.
Caicedo non è stato fortunato perché ha avuto il merito di segnare, nell’ultimo anno, ben cinque gol a tempo quasi scaduto. Più che di fortuna direi che si possa parlare di caparbietà, opportunismo, tenacia. Caicedo non si può definire un fuoriclasse, non è un grande goleador, parte sempre dalla panchina, ma ha una grande virtù che lo rende amato e osannato dai propri tifosi, quella di non mollare mai, di essere sempre decisivo anche nei momenti in cui tutto sembra perduto.
Durante il lockdown un infermiere, nel reparto di terapia intensiva, disegnò sulla propria divisa da lavoro il numero 20 della maglia di Caicedo: prese ad esempio la voglia di riscatto, la determinazione e la professionalità di un calciatore sempre pronto a dare il massimo. È quello che fanno gli infermieri che una volta chiamati in causa nei momenti più difficili, proprio come Caicedo, danno il meglio.
Anche il calcio può insegnarci qualcosa. Ci sono momenti in cui tutto sembra perduto e prevale la rassegnazione della sconfitta. Avere la stessa caparbietà di Caicedo vuol dire credere fino all’ultimo di poter raddrizzare le cose, di poter ancora agguantare un risultato che sembrava perduto. “Non so se ti è capitato mai di dover fare una lunga corsa e a metà strada, stanco, dire a te stesso: ‘adesso basta!’. Eppure altri stan correndo ancora intorno a te e allora non farti cadere le braccia, corri forte, va più forte che puoi!” cantava Edoardo Bennato in una canzone molto bella del 1973.
Quel gol all’ultimo secondo ha lasciato pietrificati i tifosi juventini. Se per i vincitori può essere visto come un segno di caparbietà, per chi lo subisce vale l’osservazione opposta: non bisogna mai illudersi di aver vinto e portato a termine la missione intrapresa. Un calo di concentrazione nel finale o sentirsi vittoriosi può costare caro. Un gol all’ultimo minuto fa male, malissimo. Non c’è più tempo per recuperare, tutti gli sforzi fatti sono vani. È “la dura legge del gol” che cantava Max Pezzali: “Fai un gran bel gioco però se non hai difesa gli altri segnano e poi vincono […] alla prima opportunità salgon subito e la buttan dentro a noi”. Insomma, tanto gioco ma alla fine vince chi segna.
Nello sport in particolare la tenacia è un valore fondamentale. Quante volte vediamo nelle finali dei 100 metri gli atleti correre velocissimi incuranti dei passi che li separano dal traguardo; non possono rallentare quando sono in prima posizione, non possono mollare coloro che inseguono. Alla fine non vince solo il più forte ma colui che ci ha creduto fino in fondo.
La perseveranza è una virtù. Nella fede è premiato colui che non smette di credere e confidare in Dio.
È una virtù che premia sempre; lo sanno gli studenti che cercano fino all’ultimo il voto necessario per la sufficienza, lo sanno gli sportivi che inseguono la vittoria, lo sa il malato che lotta per la vita anche in condizioni estreme.
I miei alunni erano sorpresi che da una partita di calcio potessero nascere queste riflessioni. La vita merita di essere raccontata e ancor prima osservata: anche davanti a ciò che può sembrare secondario possiamo trarne un insegnamento. Proprio come il gol di Caicedo!
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