La domanda arriva diretta e inaspettata da parte di Gabriele, un alunno di dieci anni. Ci ho pensato un momento, e così ho rivisto scorrere velocemente il ricordo di centinaia di bambini, alcuni dei quali ormai sono diventati più che maggiorenni.
Ogni anno insegno a una media di duecento allievi, i colleghi di religione delle scuole secondarie arrivano a più di trecento. Numeri importanti che moltiplicati negli anni contano diverse migliaia di studenti. Insegnando da vent’anni posso dire di aver lavorato con più di tremila alunni. Non li ho mai contati con esattezza ma certamente non sono pochi. Sarebbe una bugia se vi dicessi che me li ricordo tutti, è quasi impossibile, anche se, non posso nasconderlo, alcuni di loro sono rimasti inevitabilmente impressi nella mia mente più di altri.
Nella scuola primaria gli alunni entrano ancora bambini e terminano il primo ciclo scolastico alle soglie dell’adolescenza. A pensarci bene tutto inizia e finisce con un pianto. Il primo giorno i lacrimoni dei bambini sono per aver salutato le mamme al cancello, ignari di un destino che appare loro oscuro; l’ultimo giorno della classe quinta invece piangono consapevoli di lasciare i compagni, gli insegnanti, i collaboratori scolastici, incerti di un futuro altrettanto misterioso e pieno di sfide.
In questo arco di vita così importante ho modo di osservare tanti cambiamenti, le sfide vinte e quelle ancora in corso, la maturazione – spesso repentina – degli alunni. C’è un momento in cui un bambino sboccia, proprio come un fiore che si apre; non credo ci possa essere metafora migliore per descrivere questo passaggio.
Il difficile momento della crescita di un bambino tocca molteplici aspetti della sua vita. Un bimbo che arriva a sei anni a scuola ha già un trascorso importante, che in parte ha già segnato il suo futuro e gettato le basi del suo carattere e della sua personalità; il più delle volte gli insegnanti contribuiscono serenamente allo sviluppo e alla crescita, quando invece un bambino ha vissuto dei traumi o una prima infanzia non serena il lavoro è inevitabilmente più difficile e impegnativo. Non sempre riusciamo a vedere i frutti del nostro lavoro; la semina è il momento in cui ci si affida alla speranza. L’importante per un insegnante è aver seminato e non essersi mai arresi alle circostanze avverse.
Le storie che mi legano ai bambini sono delle piccole storie d’amore e di vita; c’è la prima fase dell’incontro, della conoscenza fatta di tenerezza, dove un insegnante mette in gioco le sue qualità umane e professionali. Si passa poi alle prime domande, osservazioni e cresce rapidamente la voglia di conoscersi ed imparare anche insieme. Nel tempo ogni bambino sa offrire all’insegnante le sue perle di saggezza, mostra le sue fragilità e i suoi punti di forza, tende fiducioso la mano all’adulto chiedendogli di accompagnarlo verso il futuro.
C’è un momento altrettanto emozionante che definirei “il ritorno”. Qualche giorno fa ha bussato alla porta dell’aula un ragazzo di 15 anni, mi saluta. “Ciao maestro…”. Lo guardo, lo osservo. Nota il mio momento di incertezza e subito mi chiede: “Mi riconosci?”. No, non ho riconosciuto quel ragazzo davanti a me; era un bambino vivacissimo quanto simpatico, con una storia personale alle spalle molto delicata, bello adesso quanto allora. Il suo sorriso mi ha scaldato il cuore, non lo vedevo da tempo. Questo è uno dei momenti più emozionanti, quando un alunno torna a salutarmi.
Un insegnante vive nel cuore dei suoi alunni, anche a distanza di anni. Voglio sperare di avere sempre un posto nel loro cuore, così come loro ne hanno uno nel mio. Vederli crescere è assistere ad uno spettacolo, sentendosi coprotagonisti di una storia di vita. Se per qualcuno “insegnare è toccare una vita” io aggiungerei che insegnare è far sì che ad essere toccata sia anche la propria vita.
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