“Prof. ma lei ci va a messa la domenica? Perché non fa il prete?”. Sono le domande di una studentessa della scuola media, le stesse che mi pongono anche i miei alunni della scuola elementare.
Nell’immaginario studentesco i professori, nella loro vita privata, faranno sicuramente qualcosa attinente alla disciplina che insegnano; e così l’insegnante che parla di religione andrà la domenica in chiesa, il professore di inglese trascorrerà i suoi fine settimana a Londra, la professoressa di musica suonerà il pianoforte mentre la professoressa di geografia farà un pic-nic sul delta del Po.
Siamo ciò che insegniamo o insegniamo ciò che siamo? La domanda alla Marzullo stimola una riflessione. Un’insegnante di matematica non vive le equazioni, diverso è per il professore di religione e lo dimostra il filo logico della domanda che ha posto questa studentessa. Gli studenti immaginano l’insegnante di religione in chiesa la domenica, a vivere ciò che spiega o quanto meno a farne esperienza diretta. E allora, perché non fa il prete?
A questa domanda posso rispondere con delle considerazioni personali che partono da lontano.
Quando frequentavo la scuola elementare, era un prete che ci spiegava qualcosa di religione, di fatto si trattava di nozioni di catechismo tenute nelle aule scolastiche frequentate a quel tempo da tutti bambini italiani e ovviamente appartenenti a Santa Romana Chiesa. Erano i preti ad insegnare religione; oggi invece solo una piccolissima percentuale di sacerdoti è impiegata nella scuola come insegnante. Nonostante la fede e la passione per le materie religiose, non ho mai valutato seriamente l’ipotesi di diventare sacerdote. Sapevo fosse un’ipotesi, una possibile strada da scegliere ma non ho ricevuto la famosa chiamata dall’Alto.
Ho sempre avuto un profondo rispetto per i sacerdoti, gli unici che possano concretamente trasmetterci Gesù. Ancora adesso mi piacciono le sacrestie, il profumo delle candele, i paramenti sacri curati da mano amorevoli, l’odore dell’incenso; in mezzo a tutto questo rivedo il buon don Cesare, parroco della mia infanzia, austero e dall’aria severa eppure tanto buono nonostante la scorza da uomo di altri tempi. Celebrava la messa con i bambini e, prima di salutarci, ci lasciava con una frase molto bella. Lui diceva “essere buoni…” e noi bambini rispondevamo “…per essere felici”. Una piccola giaculatoria tanto semplice che ho apprezzato nel corso del tempo.
I ragazzi chiedono a noi insegnanti di religione se andiamo a Messa; ci immaginano cristiani impegnati, è una cosa molto bella anche se ci carica di una responsabilità davvero molto grande, a volte troppo. Raramente mi capita di andare nella chiesa vicino alla scuola, abitando lontano da essa; nelle poche occasioni avute, i bambini sono stati molto sorpresi nel vedermi lì in mezzo a loro, erano piacevolmente stupiti. Una volta sarei voluto sparire quando in fila per la Comunione mi sono sentito chiamare a gran voce da alcuni di loro!
Sono un semplice maestro di religione che ascolta gli insegnamenti del Maestro perché anche io ho bisogno di andare ancora alla scuola del Vangelo, dove l’incontro con le Scritture, con la sapienza e con il mio “Datore di lavoro” è fonte di nutrimento spirituale.
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