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MAESTRO, TU DICI LE PAROLACCE?

“Maestro, ma ‘imbecille’ è una parolaccia?”. Qualche giorno fa in aula c’era fermento perché un bambino è stato apostrofato da un compagno con l’appellativo di ‘imbecille’. La discussione tra i due bambini e con il resto della classe ha avuto un seguito piuttosto acceso, fortunatamente con un gergo contenuto.

Nel bel mezzo del confronto un bambino mi ha chiesto: “Maestro tu le dici le parolacce?”. La domanda ha stuzzicato la curiosità degli altri compagni che volevano a tutti i costi conoscere la mia risposta. No, le parolacce non le dico, o meglio, raramente me ne scappa una. Cerco di evitarle il più possibile da quando è scattata in me un’attenzione particolare alle belle parole e pertanto scarto automaticamente tutte quelle che offendono il buon gusto, parolacce comprese. Le trovo volgari, inutili, un disprezzo della lingua italiana. Non mi piace dirle e neanche ascoltarle, anche se comprendo che per qualcuno è un’abitudine difficile da correggere. Mi infastidiscono ma le tollero. Come educatore mi sono imposto – anche al di fuori della scuola – di mantenere un linguaggio il più possibile corretto, soprattutto per me stesso.

Curiosa la posizione di una bambina che, durante la nostra discussione, ha affermato con determinazione che a volte le parolacce sono necessarie e che addirittura possono essere considerate come un gesto di affetto! I suoi genitori – che a suo dire si amano molto – quando litigano non lesinano pronunciare delle parolacce. Pertanto, dal suo punto di vista, è un bene dirsi le parolacce, un segno d’amore. Immediatamente un’altra bambina i cui genitori, al contrario, non dicono parolacce neanche quando litigano, con una faccia interrogativa mi ha chiesto: “Allora non si amano i miei genitori?”. È vero che il proverbio dice che l’amore non è bello se non è litigarello, ma si può litigare anche senza le parolacce.

Se abitualmente cerco di non dirle confesso che come tifoso ancora devo migliorare! Durante le partite di calcio – ahimè – mi scappa qualche parola fuori posto.
Recentemente ho accompagnato mio figlio allo stadio, luogo in cui, come tutti sappiamo, non si risparmiano parolacce e insulti. Spesso i tifosi indirizzano in coro una accorata parolaccia nei confronti degli avversari; quando accade ciò non riesco ad immaginare come possa sentirsi il malcapitato di turno che subisce gli insulti di migliaia di tifosi.

Alle mie spalle era seduto un bambino di circa cinque anni, accompagnato dal papà: questo bimbo ha detto una serie di parolacce, nell’indifferenza del padre il quale, ovviamente, sembrava un esperto in materia. Tristi le parolacce sulle bocche dei bambini.

I bambini ascoltano e imparano le parolacce soprattutto a casa. Quando faccio notare ad alcuni genitori che i loro figli utilizzano delle brutte parole, essi fanno ricadere la colpa sulla televisione. Non credo sia così, perché l’educazione, così come le buone maniere, si apprende soprattutto in casa. I buoni esempi sono i maestri migliori e l’esperienza mi insegna che dove si parla in modo garbato le parolacce sentite alla televisione hanno meno impatto.

Purtroppo molti film, così come alcune canzoni, abbondano di parolacce. Marco Masini, molti anni fa, ebbe successo proprio con due canzoni il cui titolo conteneva delle parolacce. E di parolacce ne fanno un uso – e talvolta anche un abuso – diversi comici. In alcuni casi ci può stare e può far ridere: io stesso rido quando guardo i film polizieschi anni ’80 di Tomas Millian dove il linguaggio è un po’ sboccato. In quelle pellicole il vocabolario utilizzato va contestualizzato in un periodo storico e in un ambiente sociale dove era inevitabile il ricorso a qualche parolaccia. Bravi invece i comici come Ficarra e Picone che non ne hanno mai fatto uso.

Non necessariamente si deve far ricorso alle parolacce per ferire qualcuno. Racconto sempre ai miei alunni un episodio accaduto quando avevo nove anni. A quel tempo un compagno di classe spesso mi provocava con sgradevoli dispetti, aiutato anche da un altro gruppo di suoi amici. Un giorno, esausto e stremato da tali atteggiamenti, reagii ad una sua offesa dicendogli: Statti zitto, tu che hai le orecchie a sventola”. Quel ragazzino cadde sulla sedia a lui vicina come se gli avessi dato un destro degno di Mike Tyson. Lo colpii, a mia insaputa, nel suo punto debole. Iniziò a piangere e lì capii, per la prima volta, che le parole hanno un potere enorme, capaci di far del male come le armi.

È bene che tutti gli educatori, dalla famiglia alla scuola, prendano consapevolezza che educare alle belle parole è un gesto che contribuisce alla crescita della persona. Doniamo ad ogni figlio, così come a noi stessi, un nuovo vocabolario: il linguaggio è il nostro primo biglietto da visita al mondo.

Leggi gli altri articoli in “Scuola”

Info Andrea Gironda

Andrea Gironda, nato a Roma nel 1974, è insegnante di religione nella diocesi di Roma. È autore del libro “Anche i pidocchi vanno in Paradiso” e con Àncora ha appena pubblicato "Chiedetelo ai vostri bambini".
Cura il sito www.andreagironda.it

Commenti

  1. cb01nuovosito.net dice

    9 Febbraio 2023 alle 21:21

    trama dei film e commenti sugli attori, cosa ti piace?

    Rispondi

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