Mercoledì mattina: anziché trovarmi in classe come accade ogni giorno, sono seduto sulla sedia del dentista in preda ad un dolore lancinante. La luce fredda puntata contro i miei occhi non mi aiuta, il sole tiepido del mattino non ha alleviato un dolore che si fa sempre più forte. Vedo il dentista avvicinarsi con i suoi strumenti. Mentre, mio malgrado, ascolto il sinistro suono del trapano mi torna in mente la domanda che una mia alunna mi ha posto il giorno prima: il dolore ci cambia?
A stimolare un quesito così importante è stata la lettura della storia di Saulo di Tarso. Partito da Gerusalemme per perseguitare i primi cristiani, viene colto da una luce sfolgorante sulla via di Damasco. Cadde a terra e rimase cieco per tre giorni; uscirà da questo buio solo dopo una profonda conversione tanto da farsi battezzare. Saulo è un uomo nuovo, si farà chiamare Paolo, nome latino che significa “piccolo”. Per ricominciare bisogna farsi piccoli, scendere dai falsi piedistalli; il dolore lo ha cambiato nel profondo dell’anima.
Di questo episodio mi colpiscono due passaggi.
Saulo in missione militare cadde a terra; un soldato a terra diventa un uomo vulnerabile ad un passo dalla sconfitta. Ma Saulo riesce a rialzarsi, in fondo non è importante cadere ma rialzarsi. Nel risollevarsi Saulo assapora la gioia della ripresa dopo aver sperimentato il dolore della caduta.
Le cadute diventano importanti, spesso sono salutari.
Nel rialzarsi Saulo è cieco. Soffre, per tre giorni non prende né cibo, né bevanda. Deve aver sofferto tanto, più nell’animo che nel fisico: nel buio – durato tre giorni, riferimento alla risurrezione di Cristo – si rende conto che tutta la sua vita, le sue certezze e i suoi progetti erano falliti.
Il dolore lo ha trasformato da uno spietato soldato persecutore al più grande apostolo della storia cristiana: San Paolo.
Questi rapidi pensieri in successione mi scuotevano mentre il trapano del dentista frantumava una vecchia otturazione; ciò che era stato costruito per proteggere veniva reciso per far scomparire il dolore. Per guarire dal mio malanno e tornare a riprendere la vita di prima dovevo soffrire un po’.
Strano pensare a San Paolo mentre si è dal dentista, deliri di un maestro di religione!
Il dolore bisogna accoglierlo, farlo abitare nel nostro cuore, riconoscerlo per poter trovare una nuova luce. Un dolore che può essere sia collettivo che individuale. L’attuale situazione di pandemia non ci lascia tranquilli; non solo il nostro Paese sta vivendo un periodo doloroso e faticoso, tutta l’umanità è chiamata a scontarsi con un nemico invisibile capace di mettere in ginocchio l’uomo del terzo millennio. Siamo in ginocchio come Saulo, per rialzarci dobbiamo perdere l’individualismo di cui è ancora impregnata la nostra società: i comportamenti di ciascuno possono incidere positivamente o negativamente anche sul nostro prossimo.
A volte però non sappiamo riconoscere il dolore di chi ci sta vicino. Pochi giorni fa mi trovavo sul treno: noto una donna, seduta di fronte di me. Aveva le cuffiette, guardava il suo cellulare. Anche se nascosta dalla mascherina, noto che dai suoi occhi ben truccati scendevano delle lacrime silenziose. I suoi occhi si perdevano nel vuoto. Cosa stava ascoltando? Una canzone che gli ricordava un amore lontano? Una voce? La vita è fatta anche di lacrime silenziose che nessuno asciugherà, private, intime. Non sempre ci è dato conoscere e percepire i dolori di chi ci sta di fronte.
L’uomo nella sua continua lotta contro il male e la sofferenza non potrà cancellare l’esperienza del dolore. C’è una via di Damasco per tutti, una strada che ci mette davanti alla possibilità di trasformare le nostre esistenze.
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