«Cosa ha fatto il povero Lazzaro per meritare il Paradiso?». La domanda arriva diretta in classe e stimola immediatamente la riflessione. Lazzaro, non l’uomo risorto da Gesù, è il protagonista della parabola raccontata da Lc 16,19-31. È un povero che vive nella più totale indigenza vicino alla casa di un ricco epulone; nonostante la condizione umiliante in cui si trovava nessuno gli offriva qualcosa da mangiare, fintanto i cani gli leccavano le ferite.
La sua condizione viene riscattata dopo la morte. Lazzaro muore e va in Paradiso mentre il ricco epulone scende negli inferi e da lì chiederà a Dio la misericordia che non è riuscito a dimostrare in vita senza ottenerla. Vani sono stati tutti i tentativi di salvarsi. Quasi come fosse in un girone dantesco era costretto a vedere la gloria di Lazzaro vicino ad Abramo. È questa la storia del riscatto degli umili, il trionfo degli ultimi.
Anche se in realtà Lazzaro non è mai esistito, la Chiesa lo festeggia come santo il 21 giugno, in quanto la credenza popolare lo ha elevato come tale. Da Lazzaro derivano i “lazzaretti”, ricoveri per malati di lebbra; il suo nome in spagnolo IL NOME significa “pezzente”, tanto che a Napoli con il termine “lazzarone” si indica uno straccione o mascalzone. Il suo nome invece ha un bellissimo significato: deriva dall’ebraico Eleazaro, “colui che è assistito da Dio”.
Quale povertà?
Dall’analisi proposta da un’alunna, Lazzaro sembrerebbe non aver fatto niente per meritarsi il Paradiso, in fondo era solo povero. La ragazza non manca nel far notare che i poveri sono fortunati mentre i ricchi devono faticare parecchio per guadagnarsi il Paradiso; dal suo punto di vista è stata una promozione alla santità del tutto immeritata quella di Lazzaro!
Con i ricchi Gesù è stato chiaro, “è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entrare nel regno di Dio” (Mt 19,24). La ricchezza non deve ingannarci però; improbabile che alle porte del Paradiso dobbiamo presentarci con il modello Isee e non dipenderà certo dalla consistenza del conto in banca se saremo santi o meno.
Non è la ricchezza l’ostacolo bensì tutto ciò che rende schiavo l’uomo. “Vivere per lavorare o lavorare per vivere?” cantava lo Stato Sociale a Sanremo nel 2018. Se l’uomo vive per lavorare e guadagnare soltanto, sarà schiavo. Contrariamente chi lavora per vivere lascia spazio ad altro; colui che possiede delle ricchezze può farne buon uso. La stessa parabola dei talenti va interpretata in questo senso: ciò che ci è donato non deve essere sepolto nel buio dell’egoismo ma condiviso per il bene degli altri.
La generosità non ha misura
Mi piace pensare sempre alla vedova del Vangelo che si reca al Tempio (Mc 12, 41-44) e dona tutto quello che possiede. Non era molto ma era tutto, mentre gli altri offrivano in offerta il superfluo. Perché l’amore richiede la totalità, la generosità non ha misura e la compassione deve infiammare il cuore. Penso a Madre Teresa di Calcutta: pur non avendo niente, è riuscita a fare del bene a migliaia di persone e la sua opera continua ancora oggi a distanza di più di vent’anni dalla sua morte.
Lazzaro e il ricco epulone ci sono ancora. È la gente stremata dalla fame che chiede cibo alla mensa del ricco occidente; sono i malati che non possono accedere alle cure, i bambini soldato armati dai potenti, i braccianti del sud sfruttati dal caporalato, gli uomini che arrivano dal mare e chiedono pietà ancor prima di un’accoglienza.
La parabola parla ai tanti Lazzaro del nostro tempo risultando incredibilmente attuale.
Andrea Gironda
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