La vanità è un imbroglio. Lo canta Giorgia, e non si può darle torto.
Prendete il vangelo di domenica 27 ottobre (Lc 14, 9-18). Un fariseo si mette in prima fila, nel tempio: non vuole pregare, vuole essere visto pregare. Ed è diverso. Ringrazia Dio per non essere come quel peccatore che sta in fondo, da solo, e ricorda tutti i suoi atti virtuosi (“Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”).
Dall’altra parte il pubblicano, che semplicemente si dichiara peccatore. Davanti a Dio, è lui quello sincero.
Perché la vanità – e torniamo alla canzone di Giorgia – è un imbroglio. È un’illusione, che “docile si arrende al dio migliore”.
Un dio comodo, che ci dice quello che vogliamo sentirci dire. Anche quando non è la verità.
Il vangelo di domenica 27 ottobre
Lc 14, 9-18
Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
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