I misteri nel mondo della musica e in particolare le identità segrete mi hanno sempre affascinato. I caschi dei Daft Punk che hanno protetto il loro anonimato per i 28 anni di attività, il secchio sulla testa del chitarrista che sostituì Slash nei Guns ‘n Roses, sono tutti espedienti per provare a mantenere una quotidianità normale nel mondo dello showbiz; così come rimane un mistero l’identità di Banksy o chi suoni ai concerti dei Gorillaz.
Anche l’identità di Etimo resta al momento celata per motivi che non ci riguardano e non certo per il timore di essere fermato per firmare autografi.
Il libero percorso mistico di Franco Battiato
La ricerca umana e artistica di Franco Battiato (1945-2021) muove dalla meditazione, dal raccoglimento, dal silenzio, in direzione di un cambiamento etico e spirituale. La sua canzone, apparentemente lontana dalla realtà storica contemporanea, è in realtà “impegnata”, tesa al riscatto terreno dell’uomo e alla riaffermazione della sua dimensione spirituale. È infatti responsabilità umana cercare un principio di salvezza nella spiritualità, e Battiato si impegna in tal senso accogliendo nella sua opera e nel suo pensiero gli influssi artistici e musicali più disparati, le suggestioni culturali e musicali delle più diverse provenienze, dal rock alla musica etnica, dalla musica sinfonica a quella operistica, fino alla musica sperimentale e d’avanguardia.
Con un atteggiamento laicamente religioso fonde tra loro molte filosofie, si appropria di tradizioni culturali e musicali di differenti popoli e continenti. Indica insomma, con estremo rigore sperimentale, la via di un futuro multietnico e cosmopolita, perché universale, anche nella musica.
Su tutto batte la coscienza che quello che crediamo il mondo è solo “l’ombra della luce” (è il titolo emblematico di una delle sue più belle canzoni) e che bisogna saper cogliere il vero senso della vita dietro lo scorrere delle apparenze e su questo misurare, ben più che l’arte, scelte e destini:
“Passano gli anni, / i treni, i topi per le fogne, / i pezzi in radio, / le illusioni, le cicogne. / Passa la gioventù, / non te ne fare un vanto: / lo sai che tutto cambia, / nulla si può fermare. / Cambiano i regni, / le stagioni, i presidenti, le religioni, gli urlettini dei cantanti… / e intanto passa ignaro il vero senso della vita. / Si cambia amore, idea, umore. / Per noi che siamo solo di passaggio” (Di passaggio di Manlio Sgalambro e Franco Battiato, 1997).
Non stupisce così che Battiato – con il suo sodale ed amico Manlio Sgalambro (1925-2014) – sfidi uno dei grandi tabù della contemporaneità: non certo il sesso, ma il discorso sulla morte. È fortissima e precoce in Battiato la riflessione su quella che i due siciliani chiamano “la porta dello spavento supremo” (titolo di un’altra loro canzone del 2004) al punto che è stato detto (da un critico attento quale Enrico Zingales) che si potrebbe rileggere l’intera sua/loro opera come una lunga proposta educativa e autoeducativa a quello che già san Francesco chiamava “il grande incontro”, Nostra Sorella Morte di cui non aver paura ma su cui misurare il senso della vita.
Afferma ancora Battiato: “Ho detto in una canzone che si chiamava Il re del mondo «il giorno della fine non ti servirà l’inglese», è questo il problema. La gente si dimentica che la morte arriverà, è inevitabile. Inutile che cerchiamo di esorcizzarla, quello è il momento più importante. Se durante la vita non fai cose che si rapportano con la morte hai sprecato l’esistenza” (in C. Zingales, Battiato on the beach, Arcana 2013, p. 76).
Ecco di cosa dobbiamo davvero avere paura, di una vita senza senso, e questo in una prospettiva che può essere religiosa ma anche laica.
“Ma se ti senti male rivolgiti al Signore” (come dice Battiato nella sua Fisiognomica, capolavoro del 1988) può tranquillamente tradursi in “se la tua vita non ha più un senso (e quindi ti procura un vero malessere interiore, un senso di smarrimento esistenziale) rivolgiti a quello che ha davvero valore, in chiave religiosa o laica”.
L’ombra della luce: la poetica di Franco Battiato
Libera religiosità
Difendimi dalle forze contrarie, / la notte, nel sonno, quando non sono cosciente; / quando il mio percorso si fa incerto. / E non mi abbandonare abbandonarmi mai… Non mi abbandonare mai!
Riportami nelle zone più alte / in uno dei tuoi regni di quiete: / è tempo di lasciare questo ciclo di vite. / E non mi abbandonare abbandonarmi mai… Non mi abbandonare mai!
Perché le gioie del più profondo affetto, / o dei più lievi aneliti del cuore / sono solo l’ombra della luce.
Ricordami come sono infelice / lontano dalle tue leggi; / come non sprecare il tempo che mi rimane. / E non mi abbandonare s mai… Non mi abbandonare mai
Perché la pace che ho sentito in certi monasteri, / o la vibrante intesa di tutti i sensi in festa / sono solo l’ombra della luce.
(da Franco Battiato, L’ombra della luce, 1991)
“Credo che questa canzone sia la vetta della mia produzione. E non media, come l’ascolti è. Faccio un grande sforzo a raccontare cose delle quali di solito non parlo, ma è la mia vita. Non voglio dire di essere sereno, ma ho dedicato il mio tempo alla contemplazione, non potrei scrivere e comporre in uno stato di nevrosi”.
Battiato ritiene dunque, ed io con lui, la splendida semplicità di questi versi il suo capolavoro artistico ed è significativo il fatto che sia proprio L’ombra della luce a chiudere la raccolta di tutti i testi delle canzoni di Battiato fino al 1992 curata dall’artista siciliano insieme all’attento musicologo Pulcini (cf Battiato-Pulcini 1992, p. 166 e cf le interviste concesse dall’autore a L. Putti 1991, E. Gentile 1992, F. Manzoni 1992).
Mi pare pertanto opportuno, per introdurre questo breve ritratto di Battiato e della sua poetica, fare in primo luogo un vasto commento a parafrasi di questo brano.
Possiamo subito notare che dietro la cristallina purezza e profondità di queste parole si nascondono anni feroci e crudeli di “apprendistato” spirituale e artistico. Un testo del 1974 può illuminare meglio di altri il punto di inizio di questa ricerca: significativamente in No U Turn, una canzone composta in un momento in cui secondo l’artista siciliano “una forte crisi si era impadronita della mia persona” (cf Battiato-Pulcini 1992, p. 11 e Messina 1989), si afferma: “Per conoscere / me e le mie verità / io ho combattuto / fantasmi di angosce / con perdite d’io. // Per distruggere / vecchie realtà / ho galleggiato / su mari d’irrazionalità. // Ho dormito per non morire / buttando i miei miti di carta / su cieli di schizofrenia”.
L’accostamento di questi due brani mostra che mentre No U Turn pone al suo centro lo sforzo di conoscere se stessi e le proprie “verità” ossia il travaglio di qualcosa di non definito, la canzone del 1991 sopra riportata presenta invece il risultato di questa ricerca, ossia l’identificazione di una luce la cui forza è tale da rendere pallide ombre non solo il dolore di certe situazioni esistenziali deprimenti e nevrotiche, ma anche la gioia delle esperienze più profonde e appaganti.
L’effimero, infatti, qualunque connotazione positiva esso abbia, resta comunque “ombra della luce”, ombra evanescente dell’eterno; è questo il senso più evidente del ritornello dove si ribadisce ad esempio che esperienze elevatissime quali “le gioie del più profondo affetto o più lievi aneliti del cuore” oppure “la pace che ho sentito in certi monasteri” o ancora “la vibrante intesa di tutti i sensi in festa” sono comunque e sempre “solo l’ombra della luce”.
La tematica della contrapposizione tra luce e tenebre, tra la luce della salvezza e le tenebre del dolore, dell’ignoranza e del peccato, oltre che al centro di L’ombra della luce (“Difendimi dalle forze contrarie / la notte nel sonno quando non sono cosciente / quando il mio percorso si fa incerto … Ricordami come sono infelice / lontano dalle tue leggi”), torna anche in Un oceano di silenzio, un testo che Battiato definisce, al pari di L’ombra della luce, una “meditazione” mistica (il termine è di Battiato: cf Battiato-Pulcini 1992, p. 96, Putti 1991 e Manzoni 1992); qui infatti con splendide immagini si afferma che “Un oceano di silenzio scorre lento / senza centro né principio / cosa avrei visto del mondo / senza questa luce che illumina / i miei pensieri neri”.
In entrambi i testi e spesso in tutta l’opera di Battiato si nota una tensione binaria: si contrappongono forza positive a “forze contrarie” e solo questo “tu”, al quale l’artista siciliano si rivolge in una forma che egli definisce “un genere vicino al salmo” (Battiato-Pulcini 1992, p. 2), costituisce la vera difesa rispetto alle energie negative delle forze contrarie.
Tutto questo è ulteriormente confermato, tra le tante, da Le sacre sinfonie del tempo in cui si dice che “Guardando l’orizzonte un’aria di infinito mi commuove / anche se a volte le insidie di energie lunari / specialmente al buio mi fanno vivere nell’apparente inutilità / nella totale confusione” che è una rilettura religiosa coerente con la sua fonte laica, L’infinito di Giacomo Leopardi, poeta amatissimo da Battiato e molto vicino anche a Sgalambro.
Oltre a ciò è importante ricordare che, in un brano a lui molto caro e con il quale era solito cominciare i propri concerti, il cantautore siciliano usa per rappresentare simbolicamente l’origine di queste energie negative una locuzione di origine biblica, Il re del mondo, ossia una sorta di “burattinaio invisibile che è causa del nostro dolore e che ci tiene prigioniero il cuore” (cf Battiato-Pulcini 1992, pp. 31 e 52).
Anche nell’intervista con Pulcini si parla del “Re del mondo” come simbolo di queste forze contrarie, ma si precisa anche che questo è il titolo di un libro di René Guénon e che tale locuzione è divenuta propria di una tradizione esoterica che ha uno dei suoi vertici proprio nel libro di Guénon così intitolato; questo riferimento alle tradizioni esoteriche mi dà l’occasione di segnalare il legame della riflessione di Battiato con l’insegnamento di Gurdjief e con le correnti più aperte del sufismo, una forma di altissimo misticismo e antropologia d’ispirazione islamica (per un approfondimento si veda di Gabriel Mandel Il sufismo vertice della piramide esoterica, nonché Battiato-Pulcini 1992, pp. 57-69).
Possiamo ora tornare ad analizzare quanto è scritto al centro di L’ombra della luce, questa densa riflessione ad un tempo religiosa ed esistenziale (“Riportami nelle zone più alte / in uno dei tuoi regni di quiete / è tempo di lasciare questo ciclo di vite”), anche se la comprensione di quanto qui detto può trarre illuminazione più che da un’ulteriore parafrasi da un passo dell’intervista autobiografica del musicista siciliano.
Alla domanda di Pulcini (“Parli spesso di cose spirituali, ma chi è il tuo Dio? Che rapporto hai con Dio? Che nome ha il tuo Dio?”) Battiato risponde infatti esplicitando la propria concezione religiosa dell’universo: “È troppo lontano dalla mia portata. Il nome è sempre quello, cambia l’immagine che tu hai di lui: questa forza creatrice non creata, il motore immobile. Cosa intendo per lontano? Che sono troppo impuro, troppo sporco per potermi avvicinare alla sua zona. Comprendere la sua natura è possibile con uno sforzo della fantasia. Io ho avuto la fortuna di sentire zone superiori a me e mi sembra già molto. Se un’esperienza mistica, un’estasi alla tua portata è già immensa, figurati che cos’è ciò che vi sta sopra. E quello che sta sopra quello, e sopra quello, e sopra quello» (Battiato-Pulcini 1992, p. 32).
Ed ancora in altro contesto, contro facili fraintendimenti Battiato dichiara: “Io ho una relazione mistica con il creato, la mia idea del divino è la mia ricerca. Non mi sono mai immaginato nulla se non quello che sperimentavo. Quindi non sono né mussulmano, né induista, né cattolico. Come si fa a dire: sono questo o quello?”. “Ritengo che la religiosità, il rapporto con il sacro, sia possibile soltanto come vicenda privata, intima. Diffido della religione ridotta a istituzione, di chi ti vuole convertire, di chi cerca di evangelizzarti. Credo invece nella meditazione, nel raccoglimento, nel silenzio» (cf Messina 1989 e Casalini 1991).
Se tanto potrebbe bastare per una comprensione generale di questo passo, nondimeno credo opportuno ricordare ancora alcuni versi, tratti da Un oceano di silenzio, in cui si rammenta “quanta pace trova l’anima dentro / scorre lento il tempo di altre leggi / di un’altra dimensione / e scendo dentro un Oceano di Silenzio / sempre in calma».
La calma, la quiete, il silenzio sono dunque le caratteristiche delle «zone più alte» e dell’esperienza che secondo Battiato possiamo avere di una dimensione più profonda dell’esistenza (notiamo per inciso, ma vi ritorneremo a lungo, che il “rumore allucinante”, i “clamori”, la frenesia scomposta di un “sesso meccanico” sono invece alcune delle caratteristiche dell’alienazione della civiltà occidentale (cf Clamori, La musica è stanca, Personal computer, ecc.ma si potrebbe rileggere l’intero disco intitolato Il vuoto).
Concezione dell’uomo
Il tema della reincarnazione (“è tempo di lasciare questo ciclo di vite”) è centrale nel pensiero religioso ed artistico di Battiato e si lega alla necessità per ogni uomo di un percorso di purificazione e perfezionamento. Infatti secondo Battiato siamo “esseri immortali / caduti nelle tenebre, destinati ad errare / nei secoli dei secoli fino a completa guarigione // … siamo angeli caduti in terra dall’eterno, / senza più memoria: per secoli, per secoli / fino a completa guarigione”.
Questi versi sono tratti da Le sacre sinfonie del tempo dove un’altra volta torna, oltre al tema della reincarnazione, il leit-motiv della luce e dell’eterno contrapposti alle tenebre e all’errore (l’errare ha tradizionalmente ed anche in Battiato la duplice valenza di colpa e di viaggio di espiazione). È importante anche in questo caso riportare un’intelligente domanda di Pulcini (“Nelle «Sacre sinfonie del tempo» si parla di guarigione. Guarigione da che cosa? Dalla catena di reincarnazioni?”) e la precisa risposta di Battiato: “Sì, e anche da quanto stavamo dicendo. Si guarisce dalla perversione, dal perseverare nell’errore. Le «sacre sinfonie del tempo» aiutano a guarire lo spirito. Per entrare in certe zone bisogna essere puliti, altrimenti non ci si può entrare” (Battiato-Pulcini 1992, p. 95).
In coerenza con questa complessa concezione antropologica, dinamica e caratterizzata dalla volontà di “essere migliore” e che dunque può essere letta in chiave religiosa, interreligiosa o persino laica, Battiato afferma: “Ho sempre pensato, da quando ho cominciato ad avere coscienza di me stesso, che l’evoluzione passa attraverso il cambiamento di sé. Si parte dall’analisi, e dall’accettazione o meno di certi aspetti del carattere. Se uno trova che alcune cose non vanno bene e lo fanno stare male, bisogna cambiare”; dunque anche “l’intelligenza si acquista. Più studi bene, più studi a spirale, più diventi intelligente … (Io) lo sto diventando con il tempo. Ripeto: una persona può essere intelligente per natura, nascere con una notevole velocità di percezione, ma potrà sapere meno di una persona che è diventata intelligente. C’è chi nasce ricco e chi lo diventa. Chi è migliore? Il figlio di un ricco o quello che si arricchisce con il proprio lavoro e il proprio ingegno? … L’intelligenza si deve comunque allargare sempre di più, come un sasso buttato in uno stagno, come le onde sonore. Più spazio invadi con il pensiero, più intelligente sei”; insomma “tutto dipende dal grado di conoscenza che hai del tuo genere di vita passata e dal grado di conoscenza che hai del tuo essere oggi” (Battiato-Pulcini 1992, pp. 158, 39, 110, 111 e 33).
Quanto finora detto ci permette di tornare con maggior profondità ad un passo molto importante e già prima citato di L’ombra della luce in cui si dice: “Ricordami come sono infelice / lontano dalle tue leggi / come non sprecare il tempo che mi rimane”. In questo frammento trova piena espressione il tema della sofferenza come alterazione delle leggi e dei codici esistenziali e come necessità di una propria personale conversione; possiamo notare ancora come questo concetto torni spesso in Battiato e si espliciti e sintetizzi in alcuni versi di Fisiognomica: “Ma se ti senti male / rivolgiti al Signore / credimi siamo niente / dei miseri ruscelli senza fonte”.
È bene però precisare subito che questo rivolgersi ad un punto più alto come principio di salvezza dal male nulla toglie alla responsabilità umana perché il “capire ciò che è giusto”, il travaglio verso la luce e la verità, l’“emanciparsi dall’incubo delle passioni”, “l’essere un’immagine divina di questa realtà” sono tutte scelte e libere determinazioni dell’uomo (cf Battiato-Pulcini 1992, pp. 157 e 158).
In questo contesto si comprende come, in una bella intervista a Franco Manzoni del 1992, Battiato dica di non avere per gli altri “nessuna verità” dogmatica da comunicare, ma solo da proporre, più modestamente, una “esperienza individuale”.
La verità di Battiato è un metodo di ricerca spirituale: questo anche il senso di un distico tratto da Prospettiva Nevskij dove si afferma che “il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare / l’alba dentro l’imbrunire”, ossia che il fulcro dell’insegnamento che si può avere consiste nello sforzo di “cercare l’Uno al di sopra del Bene e del Male” nel superare “il transito dell’apparente dualità” in una prospettiva che non deresponsabilizza l’uomo ma gli dà una prospettiva ulteriore (cf E ti vengo a cercare e Nomadi, due canzoni importantissime per comprendere la figura di Battiato e anche di un altro suo amico, Juri Camisasca, con il quale Franco ha scritto l’ultima sua canzone Torneremo ancora: per inciso Nomadi, che Battiato ha cantato davanti al Papa nel loro carismatico incontro del 1989, è stata scritta interamente da Juri a riprova del loro intenso e “gemellare” percorso mistico).
In un’altra intervista aggiunge Battiato e vogliamo considerarlo un viatico: «Cerco una nuova percezione della realtà, che colga quello che sta dietro, non quello che appare. Oggi la gente si è allontanata dai sensi profondi del vivere. Ma coloro che cercano, e i monaci, e gli eremiti, e i mistici, scoprono cose nuove sulle leggi dell’universo» «E sono convinto che i mistici siano la razza più intelligente che ha attraversato il pianeta, perché chi insegue la verità con metodo, con abnegazione e con serietà, senza mai accontentarsi, ottiene sempre dei risultati» (Petazzi, 1987 e Casalini 1991).
Van De Sfroos: canzoni senza confini
Davide Van De Sfroos è il nome artistico di Davide Bernasconi, cantautore lombardo. Il segno che sicuramente contraddistingue l’artista è l’utilizzo del dialetto tremezzino, attraverso cui racconta e descrive i luoghi, i personaggi e le atmosfere che vertono per la maggior parte sull’indiscusso protagonista della sua poetica: il lago.
[Leggi di più…]LA MIA LEGGE DI ATTRAZIONE
Recentemente la Caritas Internationalis ha presentato una nuova iniziativa che mira a combattere la povertà, restituire dignità agli esclusi e proteggere la natura nello spirito dell’ecologia integrale e della fraternità.
[Leggi di più…]DE ANDRÉ FRA TRADIZIONE E INNOVAZIONE
11 gennaio 1999, se ne andava Fabrizio De André.
Non credeva nel Dio delle Chiese, ma si è sempre interrogato sull’esistenza di una «paternità» superiore. Nessun altro autore di canzoni del ‘900 italiano ha toccato così profondamente il problema di Dio, il mistero di Gesù, la coscienza di chi ha fede, i dubbi dei non credenti, i sentieri dei cercatori di una qualche verità o del senso della vita.
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